2
0

Il mare Adriatico

                       

LE TECNICHE DI PESCA, I TIPI DI BARCA, LE RETI E L’INGEGNO DEI PESCATORI

Marco impugna una rete di nylon ed una nassa. Le nasse sono trappole da pesca, il cui principio generale è quello di attrarre facilmente il pesce al suo interno (per le seppie si utilizza un mazzetto di foglie di lauro), da cui poi è impossibile uscirne

Marco impugna una rete di nylon ed una nassa. Le nasse sono trappole da pesca, il cui principio generale è quello di attrarre facilmente il pesce al suo interno (per le seppie si utilizza un mazzetto di foglie di lauro), da cui poi è impossibile uscirne

Il mare Adriatico è un mare molto pescoso, con i suoi fondali con basse profondità e fondali particolarmente uniformi e non accidentati, fin dall’antichità per le sue caratteristiche si è prestato e ha favorito l’attività della pesca. La pesca rappresenta insieme alla caccia una delle più antiche attività di sostentamento dell’uomo. Nella pesca per millenni si sono utilizzate attrezzature più o meno ingegnose con caratteriste molto simili, senza particolari cambiamenti di strumentazione o modalità di pesca. La vera rivoluzione è avvenuta nel XX secolo con l’introduzione dei motori a bordo dei pescherecci e delle fibre sintetiche per la costruzione di reti e corde. In assenza di motore come si è visto, il traino delle reti avveniva a vela e quindi la velocità di pesca dipendeva dal vento e generalmente era una velocità ridotta. Le operazioni per calare e salpare la rete avvenivano manualmente ed erano molto faticose. Prima dell’avvento delle fibre sintetiche e del nylon, le reti o il cordame, era realizzato con filati di canapa o cotone, che trattandosi di fibre naturali, erano soggette a usura e dunque andavano trattate facendole bollire con corteccia di pino, per renderle più resistenti. Dopo la giornata di pesca era necessario stenderle ad asciugare e questo avveniva sempre anche quando la pesca era stata scarsa. Occorreva comunque prendersi cura delle reti, asciugandole, riparandole, tingendole e trattandole. Se avanzava tempo se ne armavano altre nuove. Costruire una rete non era un lavoro semplice ed occorreva tecnica ed esperienza, poiché la fibra tessile andava filata, si dovevano fare a mano le maglie col nodo tessitore aiutandosi col modulo (detto cannello o morello) affinchè le maglie fossero tutte uniformi e infine si faceva l’armamento, collegando la rete alle corde.

Nella casa del pescatore si lavorava sempre e tutti partecipavano all’attività lavorativa, ciascuno con il proprio contributo in determinati compiti e in base alle proprie capacità ed esperienze acquisite. Le donne filavano e facevano le maglie, gli uomini andavano in mare ed il capofamiglia, dotato di maggiore esperienza, era il detentore delle conoscenze necessarie per armare gli attrezzi e utilizzarli in mare. Gli anziani avevano sempre ragione, tutti li rispettavano e ascoltavano, poiché possedevano l’esperienza del mare e della pesca, di cui i giovani cercavano di farne tesoro, poiché queste abilità e conoscenze venivano tramandate oralmente da padre in figlio. E’ questa una cultura marinara profonda, tramandata da una generazione all’altra, senza testi scritti e che si accresce di giorno in giorno attraverso il lavoro, basata sull’osservazione, puntale ed attenta di quanto avviene in mare o a bordo del peschereccio. Il pescatore sviluppava in mare la capacità di saper individuare il pesce, capendone la vita, gli spostamenti e sperimentando e collaudando le metodologie più idonee a poterlo catturare. Una vera è propria scuola di vita, quella del pescatore, che in condizioni a volte sfavorevoli, imparava a non demordere, a soffrire in silenzio, continuando a fare il proprio dovere a bordo del peschereccio, sfidando i pericoli del mare per poter guadagnarsi da vivere.

LA PESCA D’ALTURA, TIPI DI BARCHE: barchetti, paranze, bragozzi, lancette, battane

Si esercitavano vari tipi di pesca in base alla dimensione all’attrezzatura della barca:

Fino a tre miglia dalla costa si esercitava la pesca costiera con l’utilizzo di imbarcazioni a vela e remi, dette lancette o battane. Le lance erano generalmente di sei o sette metri di lunghezza e per dimensioni erano considerate adatte anche alla pesca notturna.

Oltre le tre miglia si svolgeva la pesca pelagica che poteva prevedere il rientro giornaliero o la permanenza al largo per alcuni giorni in base al pescato, si utilizzavano le reti da traino pelagiche, le cosiddette “volanti”. Per questo tipo di pesca si utilizzavano barche più grandi, che andavano dai dieci a dodici metri di lunghezza. Le barche utilizzate erano: barchetti, paranze, bragozzi, lancette, battane… Questi tipi di barche, che compaiono nell’Ottocento, caratterizzate dall’importante innovazione della vela al terzo, che sostituisce la vela latina, hanno scafi derivanti dalle forme di natanti più primitivi e semplici, di costruzione piuttosto grezza, ma erano molto robusti e consentivano la navigazione anche in condizioni difficili. Tra il XVIII e XIX secolo il bragozzo era la più diffusa barca per la pesca in mare aperto, nell’Adriatico. Era caratterizzato da una prua alta e rotonda, mentre la poppa, quasi speculare, era munita di un ampio timone a calumo che scendeva per un buon tratto oltre il fondo della barca, aveva un dislocamento di venti tonnellate. Con l’avvento dei motori e quindi dei motopescherecci, ci furono dei cambiamenti radicali, per quanto riguarda la velocità di spostamento, l’autonomia di navigazione non più dipendente dai venti o dagli agenti atmosferici, i motori garantivano una potenza di traino maggiore con conseguente utilizzo di reti sempre più grandi. La potenza del motore garantiva una sicurezza di navigazione mai provata prima e con questa nuova rivoluzionaria tecnologia ci si poteva spingere anche in zone di pesca più lontane per poi rimanerci per più giorni se si trovava un luogo di pesca particolarmente pescoso. Non di rado i barchetti più grandi, detti barchettoni, esercitavano il traffico nei mesi estivi e la pesca nel resto dell’anno. Con lo sviluppo del turismo balneare le lance e le battane della costa romagnola, potevano convertirsi in imbarcazioni da diporto durante l’estate, come ad esempio gli attuali cuter che traportano i turisti lungo la costa.

Prima dell’avvento dei motori, nella pesca d’altura, con le vele poteva occorrere un’intera giornata per raggiungere la zona di pesca. Una volta pescato, non esistendo ancora le celle refrigeranti, un battello di servizio a vela e remi era incaricato di portare in porto il pescato in porto, dopo un viaggio faticoso e pericoloso  di più di venti miglia, che poteva durare tutta la notte. Il battellino una volta scaricato il pesce sulla banchina del porto, poi intraprendeva il viaggio per raggiungere la barca rimasta in mare e rifornirla di provviste. Non esistendo radar o tecnologia di nessun tipo, non era per niente facile ritrovare la barca in mezzo al mare, che nel frattempo poteva essersi spostata. L’esperienza dei marinai e i loro cinque sensi e spiccato senso d’orientamento erano l’unico strumento a loro disposizione. Si racconta che i marinai più esperti riuscissero a capire in che punto si trovassero,  assaggiando l’acqua marina e in base alla salinità più o meno intensa  capire in che zona di mare fossero capitati.

 

LA PESCA A STRASCICO, IL TARTANONE, LA VELA AL TERZO E LA TECNICA DI PESCA CON LE RETI: tartana e sfogliara

Nel secondo decennio del 600’ i pescatori provenzali di Martigues , importano nel medio Adriatico un di tipo di tecnica di pesca a strascico detto tartana o alla francese.

Si cominciano a costruire barche adatte a questo tipo di pesca nei cantieri del Medio Adriatico, realizzate da maestranze di origine veneta. Le tartane adriatiche, ripropongono infatti nella fattura degli scafi della peota e della nascara (tipiche imbarcazioni della tradizione veneta), ma con innesto di un apparato con vela latina e fiocco. Della tartana se ne ha notizia già nel XIV secolo, come scafo impiegato per il piccolo cabotaggio.

E’ documentata l’esistenza di due varietà dello stesso tipo navale: il tartanone da pesca e il tartanone da viaggio. Erano barche che raggiungevano lunghezze tra i sedici e i ventuno metri.  Quello da pesca era generalmente monoalbero (grande vela latina e fiocco) e se ne ricorda la tartana chioggiotta, che fu protagonista delle prime esperienze di pesca d’altura in Adriatico a partire dal seicento. Quello da viaggio invece, presentava due alberature. L’albero di maestra era attrezzato con “vela grande”, mentre l’alberetto di mezzana era con vela “a trabaccolo”. Secondo i documenti le vele “a trabaccolo” erano nate nelle marinerie di Chioggia e quelle di Rimini, anche se con differenti nomi erano già ampiamente diffuse sulle coste di Francia, Inghilterra, Belgio e Olanda.  Rispetto alla vela latina triangolare, il vantaggio di questa vela sta nel fatto che il suo punto di sospensione all’albero stava generalmente a circa un terzo della lunghezza del lato superiore e per questo motivo a partire dal primo quarto del novecento, venne ribattezzata: “vela a terzo”. Nelle andature al lascio, anche con brezza leggera, le nuove vele catturavano più aria attraverso la caduta prodiera delle mura, così da imprimere allo scafo un ottimo passo e nella opposta andatura di bolina consentivano di risalire il vento con un angolo un po’ più stretto della latina. Quest’ultimo tipo di vela prenderà lentamente il sopravvento rispetto all’utilizzo della vela latina. La barca da cui prende il nome questo tipo di barca è il Trabaccolo, un tipo di imbarcazione molto diffuso in Adriatico all’epoca, di cui tratteremo più avanti.

Le tartanone da pesca erano barche che raggiungevano mediamente i diciannove metri di lunghezza, che raddoppiavano la propria lunghezza con gli “spunteri” che uscivano da prua e da poppa per tenere aperte le braccia della rete che dragava il fondo d una distanza dalla barca pari a sei metri, trainata scarrocciando sotto vento con le vele bordate in maniera opportuna.  La tecnica di pesca a tartana è stata denominata a “spunter” dalle marinerie romagnole e marchigiane, dal nome che si dava alle due aste che sporgevano dal natante per tendere la rete.

Con la tecnica della tartana, effettuata con una sola barca, che nelle operazioni di pesca doveva posizionarsi di traverso per cogliere sulla vela una spinta del vento sufficiente a trainare la grande rete sottesa fra i due spunteri di poppa e di prua, l’attività alieutica era consentita solo nella buona stagione (primavera ed estate) quando il moto ondoso ed i venti rendevano meno problematiche le operazioni di pesca. Con la pesca a coppia si aveva modo di sfruttare un maggior numero di giornate lavorative.

Sia per la pesca costiera che per quella d’altura si utilizzano reti a strascico. In Adriatico sono la Tartana e la Sfogliara. La pesca con la tartana si effettuava generalmente con due barche, con il sistema a “còcia” (coppia). La pesca con la tartana poteva essere condotta anche con una singola barca. Nella pesca a coppia le due barche, cooperavano navigando scostate (una più avanti e una più indietro) per non coprirsi il vento, e trainando la rete da due lati. Il vantaggio della pesca in coppia, rispetto a quella singola era avere maggior potenza di traino ed avere reciproca assistenza tra le due barche. Venivano fatte due calate di rete, prima con la tartana di una barca e poi con quella dell’altra, e potevano durare da due ore fino a notte fonda. La barca madre che aveva calato, navigava davanti all’altra (barca assistente), che poi nella calata successiva avrebbe invertito i ruoli. Con una barca sola si utilizzava la tecnica della pesca a “spuntero” , che consisteva nello sfilare il timone, girare la vela a trinchetto fino a portarla affrontata a quella di poppa (cioè con le vele una di fronte all’altra. A poppa e prua venivano messi fuori due lunghi pali (spunteri) , sui cui vertici c’era fissata una carrucola su ciascun palo, dentro le quali passavano i due cavi di traino delle reti. Gli spunteri servivano a tenere aperte le braccia della tartana, in modo che la rete avanzasse aperta sul fondale.  La barca così armata, senza timone e con tutta la superficie velica esposta al vento, trainava la rete scarrocciando sottovento.

Con l’introduzione rivoluzionaria del motore, furono introdotti i “divergenti” che semplificarono la pesca con la tartana, infatti grazie a questo nuovo attrezzo una sola barca poteva trainare la rete da poppa.

L’alternativa alla tartana era la sfogliara, che aveva un solo cavo di traino. Si avanzava con un’andatura di bolina o al traverso, con mure a dritta (Mure è un termine nautico usato generalmente per le barche a vela e indica il lato che riceve il vento) si rallentava la barca mandando il timone all’orza ( la barra del timone viene spinta lontano dalla direzione del vento), dopo di chè si cala la rete a prua, dal lato sopravento e si svilava via via il cavo, fintanto che fermato al mancolo, iniziava ad andare in tiro. Si avanzava lentamente, scarrocciando (deviando lateralmente dalla rotta sotto la spinta del vento) e poi si calava la seconda sfogliara, che aveva un cavo più corto in modo che restasse più vicina alla barca non interferendo con la prima rete calata.

IL TRABACCOLO:  UN VELIERO SIMBOLO DELL’ADRIATICO

Imbarcazione da pesca o da trasporto, che ha conservato le stesse caratteristiche un po’ dappertutto in Adriatico. Le sue caratteristiche erano l’alta prua dalla forma arrotondata (a petto di colomba) sulla quale erano realizzati i due tipici “occhi” ornamentali in rilievo, che avevano la funzione magico-religiosa, di scrutare la rotta e scongiurare o allontanare la mala sorte o i pericoli o mostri del mare. La poppa era molto larga, con il timone centrale esterno. Era un’imbarcazione con uno scafo interamente realizzato in quercia, panciuta, caratterizzata dal fondo piatto e con poco pescaggio, che fece la sua comparsa a partire dalla metà del Seicento, fu l’imbarcazione più diffusa per il trasporto in mare dopo la scomparsa del tartanone tra il XVIII e il XIX secolo.. Ciò che essenzialmente lo distingueva dal tartanone, non era la forma dello scafo, che era poco dissimile da quest’ultimo, ma era l’attrezzatura velica, costituita da due alberi con antenne che portavano vele auriche (ossia di forma trapezoidale), mentre gli altri navigli mantenevano le vele latine e le quadre.  Aveva una prua piena ed era armato con due vele al terzo. Il trabaccolo fu un veliero che fino all’avvento della motorizzazione rappresentò un punto di forza per la navigazione mercantile in Adriatico. Nel nostro mare era considerato uno dei migliori velieri di piccolo tonnellaggio, costruito a basso costo rispetto ad altre tipologie di veliero e con buone capacità nautiche. Aveva piccolo pescaggio, buona manovrabilità, ottima stabilità in molte condizioni di carico, facilità di essere carenato per la manutenzione dell’opera viva, possibilità di navigare vuoto senza zavorra, poco rollio (oscillazione) e beccheggio, aveva discreta velocità, ampia capacità di carico… Tutte queste caratteristiche erano apprezzate dai marinai adriatici, che lo preferivano ai più moderni e prestigiosi velieri. Il traffico di queste barche era poco remunerativo e quindi gli armatori erano perlopiù gente povera, i quali per la costruzione della barca avevano investito tutto ciò che avevano e spesso si erano anche indebitati e per guadagnarsi da vivere sfidavano ogni giorno i pericoli dei mari. I trabaccoli di ogni cantiere differivano tra loro, solo per la stazza, mentre la tipologia di scafo era sempre la stessa, sia per barche che fossero nate a Chioggia, Curzola, Trieste, Rimini o Cattolica. Come le barche, anche gli stessi equipaggi di trabaccolanti si assomigliavano nelle consuetudini del lavoro, nelle terminologie di bordo e delle manovre e in un linguaggio marittimo comune alle diverse regioni adriatiche. Verso gli anni trenta del ‘900, a seguito dell’avvento della motorizzazione e dei nuovi motori, i trabaccoli smisero di avere il “vento in poppa” e lentamente entrarono in declino, fino a cessare la propria attività.