La cultura di marinai, pescatori e portolotti
Una storia ancora da scrivere

Foto scattata a Gabicce Monte, con vista sulla Baia Vallugola
Non si conoscono molti elementi relativi alla cultura marinara e portolotta della Romagna, anche perché da una parte essa è sempre stata considerata minoritaria o meno importante, all’interno del contesto regionale o locale caratterizzato da una prevalente attività e cultura contadina. La gente di mare lungo la nostra costa per secoli è vissuta come un corpo staccato, rispetto al resto del territorio, sviluppata lungo una lingua di terra caratterizzante e in parte diversa, con valori propri, con una percezione del mondo e del tempo fortemente influenzati dalla propria attività di mare, il che ne faceva qualcosa di difficilmente assimilabile e comprensibile per il resto della popolazione.
Essere uomo di mare spesso era motivo di differenziazione sociale e psicologica, a volte sinonimo di coraggio, spesso di poca affidabilità, certamente sinonimo di individuo fuori dal comune.
In ogni porto esisteva una differenza nettissima fra gli abitanti del paese e la comunità della gente di mare. Il fenomeno è comune e comprensibile, ma nei porti della costa emiliano romagnola portava in qualche occasione a situazioni di tensione non facilmente giustificabili. La tensione fra pescatori e gli abitanti con attività sulla terra ferma fu a volte molto forte e alcune occasioni legate ad agitazioni politiche, furono il pretesto per attuare soprusi e incolpare gratuitamente la gente di mare di essere sporchi e ladri.
La gente di mare fa gruppo, tende a distinguersi dal resto della popolazione, non solo per le proprie competenze e per gli elementi socioculturali legati a queste (un linguaggio specifico costituito da termini legati alla barca, alla navigazione…), ma anche per alcuni specifici rifermenti simbolici (credenze, segni magici, superstizioni) , per alcuni tratti comportamentali , per aspetti della mentalità derivanti da condizioni di vita diverse da quelle del resto della società in generale e del mondo popolare terrestre.
Il pescatore è povero, è ignorante, è rozzo, ma è onesto. Ed oggi, che la marea dell’impostura e della prepotenza copre tutto, o quasi tutto l’abitato terrestre, la destra callosa dei cacciator di pesci è infinitamente più nobile e preziosa di tutte le regole e di tutti gli imperi. Questo scriveva dei pescatori, Giuseppe Giuletti nel 1905, fu figlio di pescatori e giovane marinaio a sua volta, poi divenne uomo politico e parlamentare.
MENTALITA’, PAURE E RITI DELLA GENTE DI MARE:
Il mare è stato per secoli, nell’ immaginario collettivo, uno spazio che si sottrae alle leggi dell’uomo.
Come tale, in grado di suscitare paure e suggestioni simboliche che richiamano la sciagura, il disordine, il germe della vita e lo specchio della morte. Il mare fa paura quando è calmo, perché la bonaccia blocca le barche e la vela per giorni e giorni e fa paura quando è agitato, perché di fronte e sopra di esso l’uomo si sente piccolo e fragile.
Nella lotta con gli elementi naturali, come il mare e il cielo, gli uomini di mare e le loro barche alle prese con i pericoli della natura avversa, si rivolgono ad elementi celesti percepiti come protettori. Si richiede di intercedere, si offrono ringraziamenti sotto forma di donazioni anche cospicue, ai santuari della Madonna del Monte di Cesena e a quello della Madonna del Grazie di Rimini.
Fino al 1815 anche le acque dell’Adriatico erano infestate dai pirati e corsari, che costituivano un serio rischio non solo per gli equipaggi delle nostre marinerie, ma anche per gli abitanti del lido. Non mancano sbarchi e incursioni che, anche in Romagna, interessavano le località costiere e persino le più vicine aree dell’entroterra.
Proprio per la presenza di tanti rischi in cui si poteva incorrere, chi andava per mare, oltre alla ricorso alla devozione dei santi protettori, spesso ricorreva a riti e credenze magico simboliche che avrebbero dovuto proteggere la barche e l’equipaggio da qualsiasi disgrazia o attaccato di pirati. Uno di questi elementi simbolici era rappresentato da un paio di occhi incisi o scolpiti a prua delle imbarcazioni. Questi occhi scolpiti o dipinti sulle prue dei trabaccoli, delle paranze, bragozzi e lance, avevano lo scopo di far scorgere la via da seguire, conoscere o pericoli del mare per evitarli e di contrastare gli spiriti maligni con la forza del loro sguardo.
La barca era un oggetto, che in mare aperto, turbava la tranquillità delle divinità marine, perciò occorreva placarle e farsele amiche con un sacrificio. Anticamente si sgozzava una pecora e il suo vello veniva fissato al dritto di prua. Quando le onde ed il sole rovinavano la pelle, essa veniva sostituita da una scultura in legno che ne conservava le sembianze, con riccioli ben scolpiti. La pelle della pecora si credeva, che tenesse lontane le tempeste e i fulmini.
Oltre a questo simbolo sacrificale, vi erano simboli solari, da cui si credeva provenisse la forza per scacciare i demoni del mare.
Di importanza magico-simbolica erano anche i colori e le figure disegnate sulle vele dei pescherecci. Il colore di fondo delle vele era il giallo arancione tendente al color mattone. Sulla vela di forma trapezoidale si inserivano elementi rossi nell’angolo di penna. Al centro si ponevano simboli solari o disegni di fantasia come delfini, cavalli, violini, fiaschi di vino… Il bordo inferiore della vela aveva bande orizzontali o scansioni oblique e perpendicolari, sempre di colore rosso, arancione o marrone. Questa simbologia era una forma araldica familiare, basata a volte su soprannomi e alle abitudini marinare.
Fondamentale era la benedizione che veniva impartita alla barca sullo squero, al momento del varo o anche quando accadevano disgrazie o delle avversità (perdita delle reti, periodi di pesca magra…). Erano le donne che costringevano i loro uomini a chiamare il prete, affinchè impartisse la benedizione alle proprie barche.
Un altro elemento cristiano risiedeva nel potere attribuito alla palma benedetta. La Domenica delle Palme i marinai si provvedevano di ulivo benedetto, un grosso ramo del quale veniva fissato a riva, cioè in testa d’albero, con la funzione di difendere la barca da fulmini e saette.. Quando, poi il ramo diventava secco si conservava a bordo, per gettarlo in mare in caso il mare preannunciasse burrasca.
Un altro talismano dei marinai era l’olio di Sant’Antonio, da sgocciolare in mare per placare la sua agitazione dovuta al cattivo tempo.
I talismani personali dei marinai erano molteplici, in modo particolare in Romagna, avevano particolare rilievo i brevi, cioè sacchetti che si portavano addosso, contenti sostanze e simboli apotropaici: coralli, sale, incenso, immaginette sacre, foglie di ulivo benedetto…
Era tanta la fiducia riposta nei brevi, che i pescatori li lasciavano sovente in eredità ai figli maschi. I brevi non potevano essere toccati da estranei, né cadere a terra, pena la perdita delle straordinarie virtù. Il più famoso breve, è quello contenete la placenta umana che preservava dall’annegamento e ancora oggi è conosciuto dai marinai di tutto il mondo.