La vita del marinaio
Il sacrificio di imparare un mestiere
La professione del marinaio si tramandava di famiglia in famiglia. Al compimento del settimo o ottavo anno di vita i figli maschi venivano imbarcati sulle navi come mozzi ed imparavano i rudimenti del mestiere attraverso gli insegnamenti del padre o del nonno che aveva più esperienza di tutti. I bambini frequentavano la scuola fino alla terza elementare, dopo di chè venivano costretti ad andare in mare ad imparare il mestiere del marinaio o pescatore.
Spesso i mozzi imbarcati per la prima volta e non abituati alla vita in mare, soffrivano di mal di mare, ma era un mondo duro, fatto di poche attenzioni e premura verso i più piccoli, che dovevano imparare attraverso il sacrificio e una dura gavetta. Era un mondo totalmente diverso dal nostro, la gente di un tempo era rude, essenziale e come direbbero i vecchi mari nai: “la si voleva poco lunga in mare” (nel senso che non c’era tempo da perdere con tutto ciò che non riguardasse il lavoro in mare). L’impatto con quel mondo per un bambino dell’epoca, accelerava il loro processo di crescita e nel giro già di qualche mese questi bambini crescevano ed entravano a far parte del mondo degli adulti, lavorando e faticando nonostante la giovane età. Il duro lavoro, le fatiche, le paure e le aspettative venivano ripagate con la soddisfazione della prima paga, che rappresentava un’entrata importante nella propria casa in un’epoca di miseria assoluta e povertà. Tutto il guadagno, il marinaio lo consegnava alla propria moglie la quale lo amministrava e gestiva per tutte le spese riguardanti la famiglia e la casa. La moglie comprava cibo e cucinava, procurava tessuti per poter vestire i componenti della famiglia, accompagna a scuola i figli più piccoli, accendeva il fuoco nella stufa a legna in inverno…
Non si guadagnava molto, ma era comunque una paga che permetteva di sopravvivere e potersi permettere beni di prima necessità e poco altro. Questa vita fatta di stenti e sacrifici era caratterizzata da poco riposo e tanto lavoro. Non si dormiva mai, ma ci si riposava in una sorta di dormiveglia ad intermittenza, in base ai momenti di pausa dalle operazioni di lavoro o pesca in mare. Ci si riposava sopra lo “stramazzo”, un particolare tipo di materasso che ognuno aveva per sé, che il più delle volte era umido per l’umidità accumulata in mare e capitava spesso di risvegliarsi poiché l’acqua accumulata dal materasso bagnava il corpo dei marinai su cui erano coricati.
Si pescava dal lunedì al sabato con una sosta di poche ore, il tempo necessario per vendere il pesce e procurarsi le forniture di bordo.
Al sabato mattina dopo una settimana di pesca si tornava a casa e in base al tipo di pesca o del natante su cui si lavorava, si poteva restare in mare anche uno o due giorni, a volte un settimana intera, lontano dalle famiglie. Se durante la settimana si perdeva una o più giornate per avaria del motore o per cattivo tempo, si recuperava la domenica. I giorni i mare erano lunghi e per poter sopportare meglio l’assenza da casa, gli equipaggi, formavano spontaneamente delle piccole comunità, con delle proprie regole, scandite dai ritmi delle stagioni, dalla luce e dal buio, dai venti o dalla bonaccia e dai rari momenti di riposo in cui si aspettava fortemente quello in cui si poteva consumare tutti insieme un pasto. Sulle barche esistevano delle gerarchie professionali tra gli equipaggi (composti generalmente da otto persone), che distinguevano il marinaio in base all’importanza e all’esperienza e questo generava anche diversi compensi. lunedì si tornava in mare a pescare a vela sospinti dal vento. La vita a bordo iniziava dal momento della partenza dal porto e proseguiva per tutta la navigazione fino al punto prescelto per calare le reti. Poteva succedere di restare fermi in mezzo al mare, quando non c’era vento, poiché quest’ultimo all’epoca rappresentava l’unica forza motrice (il motore non esisteva ancora, il primo fu inventato nei primi del 900’) e solo quando soffiava a favore si riusciva a tirare e trainare le reti per poter pescare. Durante la navigazione potevano presentarsi alcuni problemi o imprevisti, dovuti alle condizioni meteo o qualche problema tecnico alla barca, ed occorreva trovare soluzioni immediate e temporane per poter procedere nella navigazione senza essere bloccati o inermi in mezzo al mare. Sulla barca in queste occasioni, il cosiddetto problem solving tanto richiesto oggi dalle aziende, veniva affrontato con: espressioni colorite, imprecazioni, esclamazioni e anche qualche bestemmia non veniva trattenuta. Queste esclamazioni “sfogative” servivano a stemperare operazioni complicate come liberare la rete da pesca o l’ancora imprigionate nel fondale o nel fango.
L’esperienza con lo scandaglio (strumento composto da una palla di piombo di oltre dieci chili di peso, munita di corda con dei nodi equidistanti, utilizzato per verificare la profondità del mare e il tipo di fondale), permetteva ai marinai di ridurre il rischio di questi incidenti, ma non sempre era totalmente escluso. Il fondale sabbioso era presente nella fascia costiera, quello successivo era costituito da fango e sabbia, poi andando più al largo diventava completamente fangoso. Infine in prossimità delle coste jugoslave diventava roccioso.
Un evento meteorologico che metteva a dura prova la resistenza e la tenuta dei pescatori era il brutto tempo, con nuvole nere e pioggia torrenziale da Ponente, che costringeva l’equipaggio a passare intere giornate di duro lavoro e pesca, sotto la pioggia battente, fino allo stremo e finchè il vento lo permettesse. Quando il vento diventava troppo forte, i marinai riducevano le vele, facendo i cosiddetti “terzaroli” in modo da affrontare il vento con delle vele più ridotte. Con le vele più piccole di dimensione, ci si avvicinava alla riva in prossimità preferibilmente del porto di Rimini che con la sua imboccatura larga e moli più lunghi era più sicuro di quello di Cattolica e più facilmente individuale dal mare in burrasca. In alcuni casi i problemi erano anche più seri, come nel caso di cadute accidentali da parte di qualche marinaio, che si provocava lesioni o escoriazioni in parti del corpo, per cui bisognava essere pronti a medicarlo e in casi limite apportare approssimative operazioni di chirurgia. Non era raro che in mare succedessero anche delle morti o che qualcuno si disperdesse in mare, soprattutto per quelle barche che incontravano il maltempo o una burrasca arrivata senza preavviso e trovandosi lontano dalla costa o dal porto, mettersi in salvo era un’operazione davvero pericolosa.
Il bambino ingenuo ed inesperto, imbarcato a sette anni per la prima volta in mare, forte di questa esperienza e scuola di vita dura e pericolosa, apprendeva veramente cos’era il sacrificio e le fatiche venivano ricompensate dai doni che il mare gli offriva non facilmente. Questo bambino cresceva in fretta e diventato ragazzo, veniva trasferito su un’altra imbarcazione e affidato alla guida di un capobarca (Paròn), che doveva essere severo ma anche disponibile a trasmettere all’apprendista marinaio tutte le proprie conoscenze, riguardanti: la navigazione, il governo delle imbarcazioni e la pesca.